Europa: Eppur si muove

Di Alfredo De Feo

Quando si vive una vita normale, fatta di preoccupazioni quotidiane, bambini, salute necessità di risolvere gli inevitabili problemi, piccoli e grandi, è difficile concentrarsi su quanto avviene nel mondo, le strategie geopolitiche, i rischi per la nostra economia quindi per il nostro stile di vita ed il nostro benessere, per il futuro dei nostri figli. È difficile ma dobbiamo farlo.

Per lunghi decenni, la coesistenza tra i paesi si è basata su una serie di principi basilari: il rispetto della democrazia e dell’autonomia dei vari paesi, il rispetto delle regole internazionali, il non uso della forza per risolvere tensioni, la promozione di un commercio mondiale sempre più libero e senza barriere doganali che aumentasse il benessere dei cittadini in modo generalizzato. Il tutto garantito da una serie di organizzazioni internazionali.

Ci piaccia o no, la guerra scatenata dalla Russia contro l’Ucraina nel febbraio 2022 ha innescato una svolta negli equilibri del mondo. Le tensioni in Medio-oriente, al confine sud dell’Europa, hanno aggravato la situazione.

L’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca, nel gennaio 2025, ha portato un ulteriore scossone all’equilibrio mondiale, con un forte impatto sull’Europa ed i suoi Stati. Non ho bisogno di enumerare i proclami ed i contro proclami del Presidente Trump e del suo cerchio ristretto. I governi europei devono affrontare le sfide e prendere delle decisioni difficili, sapendo guardare al medio-lungo termine, piuttosto che ai sondaggi immediati ed avere la capacità di spiegare ai cittadini il senso di scelte che possono apparire nel breve termine impopolari.

Il mandato all’unanimità dato dagli Stati e dalla maggioranza del Parlamento europeo è un primo segnale che l’Europa è pronta a stare unita e cominciare a creare delle sinergie in materia di difesa. L’altro aspetto positivo, che traspare dal libro bianco, è che si comincia a costruire qualcosa partendo dagli Stati, con l’obiettivo di coordinare meglio la produzione e gli acquisti di materiale bellico, sviluppare una condivisione di informazione dei servizi di intelligence nazionali, lo stesso vale per la tecnologia le comunicazioni e cosi via.

Una buona parte di queste iniziative, che vedremo meglio solo quando saranno presentate le proposte, saranno finanziate con debito comune garantito da tutti gli Stati. Sull’esempio di quanto fatto con il Next Generation EU. Questo piano, favorito dall’ allentamento delle regole del Patto di Stabilità, dovrebbe a termine consentire agli Stati Europei di essere più autonomi nella difesa del proprio territorio e dei propri valori, una prima risposta al disimpegno americano dalla difesa dell’Europa.

A questo, si deve segnalare la svolta in atto in Germania dove, sotto la guida del futuro cancelliere, Friederich Merz, sarà votata una riforma costituzionale per sopprimere il limite di spesa per finanziare spese legate alle infrastrutture all’ambiente ed alla difesa. Una vera e propria rivoluzione.

Seconda emergenza, quella del commercio. Il Presidente Trump ha iniziato ad introdurre dazi su molte merci importate, dando vita alle ritorsioni da parte dei paesi colpiti, creando di fatto un forte impoverimento dell’economia dei paesi (Europei e non) colpiti. Difficile dire a questo stadio tali dazi siano l’obiettivo finale del Presidente americano o solo una strategia negoziale, ma nei due casi questi atteggiamenti richiedono delle prese di posizione da parte dell’Europa, altrettanto forti. Con posizioni forti e decise sarà d’altra parte più facile negoziare.

Difficile dire se i leader europei sapranno essere solidali tra di loro nell’interesse di difendere la sovranità nazionale ed europea. È una grande opportunità ma non è sicuro che tutti sappiano coglierla. D’altra parte va ricordato che i Trattati europei prevedono la possibilità di portare avanti azioni con la cosiddetta “cooperazione rafforzata” (con la partecipazione di almeno nove stati) o in ultima analisi, attraverso accordi tra gli Stati, al di fuori del quadro giuridico dell’Unione Europea, come per esempio stanno facendo Francia ed Inghilterra per garantire il sostegno all’Ukraina (la coalizione dei volenterosi).

Per concludere, l’opinione pubblica dovrebbe essere cosciente che le sfide che abbiamo di fronte non riguardano gli altri ma noi stessi, la nostra libertà i nostri valori, non vogliamo lasciare ai nostri figli la scelta se vivere da sudditi americani o sudditi cinesi o russi ma di essere orgogliosamente europei con le nostre identità nazionali. Può essere motivo di ottimismo sapere che la generazione Erasmus è più avanti e questo lo ha già assimilato.

Pubblicato sulla Gazzetta di Parma 18 Marzo 2025

Le ragioni del ReArm Europe

Di Marco Ziliotti

Il 6 marzo scorso ventisei capi di Stato e di governo dell’Unione Europea, superando (finalmente!) la regola dell’unanimità, hanno approvato il piano denominato ReArm Europe. Declinato in cinque punti, esso istituisce uno strumento finanziario comune europeo, che fornirà 150 miliardi di euro agli Stati membri per investimenti nella difesa; introduce una deroga (clausola di salvaguardia) ai parametri del patto di stabilità e crescita, che apre uno spazio fiscale ai singoli Stati per spese per la difesa di ulteriori 650 miliardi; promuove la mobilitazione di capitali privati, tramite la Banca Europea per gli Investimenti, al fine di incentivare gli ingenti risparmi europei al finanziamento di imprese domestiche del settore difesa.

Dunque, un pacchetto da 800 miliardi di sole risorse pubbliche, oltre a quelle private, che, da un lato, con la deroga da 650 miliardi, manda di fatto in soffitta i vincoli dell’appena nato patto di stabilità e crescita; dall’altro, col fondo europeo da 150 miliardi, compie il primo passo verso la costituzione di un vero sistema di difesa comune, necessariamente finanziato da comuni risorse.

Il progetto, per le sue dimensioni e soprattutto per la natura dei suoi obiettivi, può a tutta evidenza essere definito di portata storica. È altrettanto evidente che “ReArm”, per di più “a casa nostra”, è una parola che non dovrebbe suscitare entusiasmo da parte di nessuno. Ben comprensibile, quindi, che l’iniziativa abbia provocato un acceso dibattito, non solo nelle stanze della politica di professione, ma anche fra l’opinione pubblica e nelle coscienze stesse dei cittadini. Il ché è bene, volendo fortemente continuare a credere che il libero confronto dialettico tra idee sia il valore più prezioso delle nostre democrazie liberali.

Ma, in un tornante della Storia oggettivamente così complesso, è indispensabile avere chiari alcuni cruciali elementi di contesto. Primo dato di fatto è il velocissimo e rilevante incremento dei rischi geopolitici per i Paesi europei. Intendiamoci: non si tratta qui di evocare scenari con la cavalleria cosacca in Piazza S. Pietro; ma è innegabile l’inquietante crescendo dell’uso della forza contro l’Europa da parte della Russia di Putin. Violenza militare vera e propria, mobilitando tutte le risorse umane ed economiche disponibili, in Ucraina. Ma pure violenza nella forma insidiosa della guerra ibrida: continui cyberattacchi, sempre più aggressivi e diffusi, ai sistemi informatici prevalentemente di enti pubblici; ingerenze sempre più pervasive sulle opinioni pubbliche, soprattutto in occasione degli appuntamenti elettorali, con massiccia e scientifica diffusione di fake news e tramite sostegno – più o meno coperto – a formazioni politiche e partiti apertamente antieuropeisti, quando non espressamente filorussi. Il ripristino della storica influenza russa con un perimetro analogo a quello dei tempi dell’U.R.S.S. è un obiettivo dichiarato; e non è certamente di conforto che, come affermato pochi giorni fa dal portavoce del Cremlino Dmitry Peskov, “la visione della nuova amministrazione americana riguardo alle configurazioni di politica estera coincide in gran parte con la nostra visione”.

Secondo punto: quanto sopra pone un problema urgente di deterrenza. Urgente: sarebbe certamente meglio partire prima con la costituzione di un sistema di difesa unica europea e solo dopo procedere al riarmo. Ma non c’è tempo. Per fare l’Euro ci sono voluti almeno dieci anni (dalla crisi del Sistema Monetario Europeo al 1° gennaio 2002, quando la moneta unica cominciò a circolare fisicamente). L’esercito europeo necessita di un lungo processo di costruzione, legato a doppio filo con l’edificazione di una casa politica comune. Deterrenza, che non significa affatto volontà bellicista, ma, esattamente al contrario, rafforzamento del potere negoziale; unica strada per rendere realistica – e non solo una vacua invocazione – la prospettiva di soluzioni diplomatiche sulle basi più durature e meno ingiuste possibili.

Terzo aspetto, forse il più delicato: la spesso evocata pretesa alternativa della spesa in burro anziché in cannoni. Chi, a priori, non preferirebbe che la spesa pubblica privilegiasse scuole ed ospedali rispetto a scopi militari? Ma, posta in termini decontestualizzati, la domanda ancora una volta rischia di essere pericolosamente – o, peggio, colpevolmente – fuorviante. In primo luogo, va ricordato, perché la spesa in sistemi difensivi, al giorno d’oggi, non consiste tanto in bombe e fucili, bensì prevalentemente in ricerca e sviluppo di tecnologie avanzate (sicurezza informatica, intelligence), con comprovate esternalità positive in termini di innovazioni ampiamente utilizzabili in ambito civile (si pensi, solo per citare due possibili esempi, ai droni ed ai sistemi di cybersicurezza). Non solo, ma la consistente mole (800 miliardi di euro) di risorse mobilitate può consentire massicce operazioni di riconversione di settori industriali in crisi (automotive, per esempio), generando sostegno all’occupazione ed effetti economici moltiplicativi (in passato, si sono calcolati moltiplicatori della spesa militare – soprattutto se indirizzata a tecnologie innovative – pari fino all’1,5: la spesa di 1 euro genera un aumento del PIL di 1,5 euro, cioè crea un reddito che supera del 50% l’autofinanziamento della spesa stessa).

Ma, prima ancora dell’affermazione – antiestetica finché si vuole, ma vera – che gli investimenti in sistemi di difesa possono rappresentare un efficace volano per l’occupazione e la crescita economica, il paventato conflitto tra spesa militare e welfare sociale parte da un equivoco di fondo. La sicurezza – garantita proprio dai sistemi di difesa – è indispensabile presupposto rispetto ad ogni altro elemento costitutivo del benessere collettivo. Qualsiasi diritto (all’istruzione, alla salute, al lavoro) poggia necessariamente sulla sussistenza del diritto più fondamentale che ci sia: la sicurezza dell’integrità fisica della persona e dei suoi beni (materiali ed immateriali).

Quindi, così come siamo tutti pienamente consapevoli che per garantire tale diritto alla sicurezza rispetto ai pericoli “interni” sia indispensabile destinare adeguate risorse al finanziamento delle preposte forze dell’ordine (Polizia, Carabinieri, eccetera), occorre riacquisire altrettanta consapevolezza – offuscata per lungo tempo dall’illusione di un eterno e gratuito ombrello americano – che pure le forze armate (Esercito, Aviazione, Marina) sono altrettanto indispensabili per tutelare esattamente lo stesso diritto rispetto a rischi “esterni”.

A chi invoca l’ideale di una “Europa neutrale”, sarebbe salutare ricordare che il Paese neutrale per antonomasia, la Svizzera, ha fondato la sua vocazione alla neutralità (oltre che su una posizione geografica che non ha mai interessato a nessuno e ad un segreto bancario che ha fatto comodo a tutti) su un’antica abilità guerriera – non a caso, i Papi da oltre cinquecento anni hanno scelto le Guardie Svizzere a difesa del Vaticano – e su un obbligo di leva universale in cui, dopo il primo servizio sotto le armi, per dieci anni si è chiamati a ritornare in caserma per periodici corsi di ripetizione.

Una adeguata capacità di difesa rappresenta la polizza assicurativa posta a garanzia della pace, bene sommamente prezioso; e, come accade per tutte le assicurazioni, se ne paga il premio proprio nell’intento di non doverla mai utilizzare.

Pubblicato su la Gazzetta di Parma martedì 11 marzo 2025

I nuovi Deputati del PE al lavoro

Alfredo De Feo, Direttore scientifico della Fondazione Collegio europeo di Parma

I cittadini europei hanno eletto i 720 membri del Parlamento. Come possono i neoeletti influenzare le decisioni del Parlamento? 

Innanzitutto, scopriranno che il cosiddetto multilinguismo, dove ognuno può parlare la propria lingua, è una chimera. Infatti, teoricamente parlare la propria lingua è un diritto sicuramente garantito nelle sedute plenarie, ma non è sufficiente per garantire una buona integrazione nel lavoro parlamentare. L’amministrazione mette a disposizione dei deputati servizi di interpretariato e traduzione; inoltre, ogni deputato può assumere assistenti per aiutarlo a comunicare con i suoi colleghi. Tuttavia, se un deputato non riesce a esprimersi in una delle lingue “veicolari”, o meglio “nella lingua veicolare”, rischia di essere emarginato nel lavoro parlamentare. 

Il neo-deputato scoprirà poi che l’organizzazione del lavoro politico nel PE ruota attorno a due pilastri, due facce della stessa medaglia: i gruppi politici e le commissioni parlamentari. 

Le commissioni parlamentari sono divise per aree tematiche, ricalcando le commissioni dei parlamenti nazionali. I deputati saranno assegnati alle commissioni parlamentari in base alle loro competenze e preferenze. La composizione delle commissioni sarà dunque proporzionale alla composizione dell’assemblea plenaria. Avere specifiche competenze in un certo ambito aumenterà la possibilità di influenzare le decisioni. 

Nelle commissioni, oltre al Presidente e ai Vicepresidenti, un ruolo centrale è svolto dai portavoce dei gruppi, uno o due per gruppo, che hanno il compito di trovare le posizioni più unitarie all’interno del gruppo e poi difendere i risultati ottenuti in commissione all’interno del gruppo politico di appartenenza. I portavoce dei gruppi decidono inoltre a chi attribuire le relazioni o i pareri e scelgono i relatori e i relatori ombra. Queste posizioni sono chiave per lasciare un’impronta nel lavoro parlamentare. 

Per questo motivo, specifiche competenze nelle tematiche europee trattate dalle commissioni parlamentari sono essenziali per poter aspirare a ricoprire uno dei ruoli menzionati sopra e influenzare il processo decisionale. Infatti, le competenze contano; l’impatto di ogni deputato sarà proporzionale alla sua competenza e al suo modo di interagire con i suoi pari. 

Il lavoro nelle commissioni è certamente fondamentale, poiché la posizione del PE sulla legislazione da adottare viene preparata nelle commissioni, ma non è sufficiente, poiché i voti della plenaria sono determinati dalle posizioni dei gruppi politici. 

Per essere influente, il deputato deve saper trovare i suoi punti di riferimento all’interno del gruppo. Ovviamente ogni gruppo ha la propria organizzazione, che generalmente prevede un ruolo per le delegazioni nazionali e alcune aree tematiche, che generalmente coprono le competenze di più commissioni parlamentari. Anche in questo caso, i deputati che vogliono far valere delle specificità nazionali devono trovare il sostegno del gruppo politico, che dovrà poi negoziare compromessi con gli altri gruppi per ottenere la maggioranza richiesta in plenaria. 

In conclusione, ci auguriamo che i nuovi deputati si adattino rapidamente al metodo di lavoro del PE, per valorizzare le loro competenze. E per integrarsi bene nelle commissioni parlamentari e nei rispettivi gruppi politici, per partecipare attivamente alla costruzione democratica dell’Europa. 

Articolo pubblicato sulla Gazzetta di Parma il 13/6/2024 

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