A che punto è l’integrazione economica europea?

Marco Ziliotti, Direttore Amministrativo della Fondazione Collegio europeo di Parma

Da oltre trent’anni – più di una generazione fa, quindi – in un’area prevalente del continente europeo, nel frattempo ampliatasi da dodici a ventisette Stati, le persone (Trattato di Shengen, 19 giugno 1990), i capitali (Direttiva CEE del 1 luglio 1990) e le merci (Mercato Unico Europeo, 1 gennaio 1993) possono circolare senza frontiere. Da oltre un ventennio, in venti di questi Paesi, i pagamenti si regolano con una moneta comune, l’Euro.

Gli effetti economici, sociali, politici e culturali del progetto di integrazione europeo (un esperimento unico nella storia, perché non imposto da uno stato egemone, ma dalla volontaria cooperazione fra tutti gli stati membri) sono stati, e sono, innegabilmente profondi, pervasivi ed in larga parte irreversibili. Ma la strada da percorrere perché l’Europa, anche solo dal punto di vista economico, diventi davvero una casa comune, in grado di valorizzarne appieno le straordinarie potenzialità, non è affatto terminata.

Quanto alla circolazione dei beni, nonostante il mercato e la moneta unici abbiano enormemente rafforzato le catene di fornitura su base continentale, a tutt’oggi il valore complessivo degli scambi di merci intraUE rappresenta poco più di un quarto del valore totale prodotto; tale interscambio vale invece il 60% fra gli Stati Uniti d’America.

In Europa, le barriere linguistiche, l’eterogeneità del valore legale dei titoli di studio e delle abilitazioni professionali, la carente integrazione fra i diversi sistemi pensionistici rappresentano ancora seri ostacoli alla mobilità del lavoro. Anche se un crescente numero di giovani, sceglie di – od è costretto a – cercare opportunità di lavoro all’estero, in media solo tre cittadini europei su cento vivono e lavorano stabilmente in uno Stato membro diverso da quello di nascita; in USA, uno su quattro.

Ancora incompiuta largamente l’integrazione relativa agli scambi di servizi: come è noto, i settori delle telecomunicazioni e dell’energia sono rimasti fuori, fin dall’origine, dal Mercato Unico. Anche a causa di ciò (come evidenziato con forza nel recente discorso di Mario Draghi a La Hulpe), il mancato sfruttamento delle economie di scala da parte delle utilities europee e la scarsa interconnessione fra le reti nazionali rendono le bollette delle imprese e delle famiglie europee molto più salate di quelle americane, e non solo.

Ma l’esempio più eclatante di potenziali vantaggi competitivi europei che restano inespressi a causa del persistente frazionamento delle regole e delle istituzioni è rappresentato dal mercato dei capitali. Da un lato, la storica capacità di risparmio privato, delle famiglie in particolare, che in Europa permane ad un livello fra il doppio ed il triplo rispetto alle famiglie americane (il tasso di risparmio sul reddito disponibile nella UE varia fra gli Stati membri dal 10 al 15 percento; negli Stati Uniti, le serie storiche recenti lo vedono attestato – salvo il picco di “risparmio forzoso” durante la pandemia – fra il 3 ed il 5 percento). Eppure, ogni anno escono dall’Europa 250 miliardi di euro di flussi finanziari.

La capitalizzazione delle borse valori europee rimane un sottomultiplo non solo di quelle americane (Nyse e Nasdaq), ma anche delle asiatiche (Tokyo, Shanghai, Hong Kong, Singapore). La ragione è evidente: quando una società italiana si quota a Milano, essa di fatto accede a risparmio prevalentemente domestico (capitalizzazione azionaria Borsa Valori di Piazza Affari: 800 miliardi di euro; capitalizzazione azionaria –“market cap”- del Nyse di Wall Street: 25 miliardi di dollari, di cui quasi un terzo di società non americane).

Ancora una volta, la parola chiave del problema è integrazione: è ben vero che un risparmiatore tedesco può comprare azioni in Italia e viceversa, ma questo rimane un “investimento estero”. Il mercato dei capitali italiano e quello tedesco sono controllati da diverse autorità di vigilanza (Consob e BaFin; l’authority europea ESMA detiene solo poteri di coordinamento); le norme che regolano il funzionamento delle imprese tedesche ed italiane (diritto societario; codici della crisi e dell’insolvenza) restano distinte; così come è differente la fiscalità sui redditi di impresa prodotti in Italia ovvero in Germania, o in altro Stato europeo, con una variabilità in Europa  – dal 9% dell’Ungheria ed il 12% dell’Irlanda, fino al 35% di Malta – che non ha paragone con quella fra i diversi Stati USA (con una aliquota minima del 21% ed una massima del 30%).

Nonostante gli straordinari progressi compiuti, date le sue regole democratiche di governance, l’Europa si trova ancora in mezzo al guado. Nel contesto competitivo e geopolitico attuale, ritornare sulle sponde di partenza sarebbe esiziale per i suoi singoli Paesi membri. Non resta che andare avanti, con massima decisione e con la consapevolezza che gli svantaggi “particulari” della integrazione sono di gran lunga superati dai vantaggi di interesse generale.    

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