Il mercato unico e la lezione inglese

Alfredo De Feo, Direttore scientifico della Fondazione Collegio europeo di Parma

Da oltre quattro anni il Regno Unito ha lasciato formalmente l’Unione europea ed ormai tutti riconoscono che il bilancio del divorzio è fortemente negativo. Secondo i dati presentati dall’Ufficio di bilancio inglese, nessuna delle promesse dei promotori del referendum è stata mantenuta: risparmio dei contributi all’UE, meno tasse più commercio e meno migranti. Il Regno unito continua a pagare i suoi debiti con l’Europa ( 32 miliardi), ha aumentato le immigrazioni da paesi extra comunitari a seguito della partenza di molta manodopera europea mettendo tra l’altro in crisi servizi essenziali come ospedali, gli scambi commerciali con i paesi terzi non sono stati non all’altezza delle aspettative ed il ripristino delle frontiere ha portato all’assunzione di centomila dipendenti pubblici supplementari, con conseguente aggravio delle spese pubbliche.

Per esempio dal 2009 al 2016 l’Europa investiva nel Regno Unito, tra bilancio europeo e la Banca Europea di investimenti, oltre € 6 miliardi l’anno contro i € 2,4 messi a disposizione dal governo in questi anni (dati BEI e ufficio inglese di bilancio, ripresi dal Corriere della sera del 1 luglio). Tutto questo spiega perché il Regno unito, ed i suoi cittadini si sono impoveriti negli ultimi quattro anni.

La lezione inglese dovrebbe indurre la classe dirigente europea e l’opinione pubblica a riflettere suai vantaggi che hanno portato all’Europa le intuizioni di Delors, Mitterand e Kohl per la creazione Mercato unico per le persone, merci, i servizi  e capitali. Mercato unico che è stato imperfettamente realizzato.

Il Parlamento europeo ha pubblicato una mappatura del costo della non Europa, cioè i vantaggi che un completamento del mercato europeo porterebbe all’economia dei paesi membri. Lo studio conclude che un approfondimento dell’integrazione europea, potrebbe aumentare il PIL europeo di oltre € 2.800 miliardi entro il 2032.

La coscienza di questo potenziale inespresso ha indotto il Consiglio europeo di chiedere la preparazione di un rapporto sul futuro del mercato interno, rapporto la cui redazione è stata affidata ad Enrico Letta, ex Presidente del Consiglio italiano e Presidente dell’Istituto Delors e rettore di una delle più prestigiose Business school europee di Madrid.

Il rapporto, Molto più di un mercato, definisce il contesto nel quale i Leader europei dovranno confrontarsi, identificando tre fattori chiave che devono guidare l’approfondimento del mercato interno dell’UE: 1) l’impegno ad una transizione ecologica e digitale, economicamente e socialmente sostenibile; 2) la prospettiva, ineludibile, dell’allargamento dell’Europa; 3) l’esigenza di rafforzare il coordinamento delle politiche difesa dell’UE, politica che non può  essere delegata ai nostri partner della Nato.

Il Rapporto, presentato al Consiglio europeo dell’aprile 2024, passa in rassegna le aree dove il mercato interno deve essere completato o rinnovato per liberare nuove potenzialità del mercato unico, presentando una serie di proposte concrete volte in ultima analisi a migliorare la vita dei cittadini e degli operatori economici.

Tra queste proposte l’ampliamento del mercato unico all’innovazione, ricerca e istruzione, e la creazione di un diritto societario europeo, complementare ai diritti nazionali con l’obiettivo di aiutare le imprese, soprattutto le medie e piccole imprese, che operano o che vorrebbero sfruttare i mercati europei.

Alcune di queste proposte sono state riprese dalla prossima Presidente della Commissione, Ursula von der Leynen, nel suo discorso di investitura davanti al Parlamento Europeo ed incluse nel mandato assegnato a singoli commissari. C’è quindi da sperare che le proposte contenute nel rapporto possano far parte dell’agenda politica europea dei prossimi mesi.  

Per concludere il rapporto Letta raggiunge due obbiettivi: il primo riportare, sul tavolo dei Leader europei e di fronte all’opinione pubblica, l’importanza del mercato unico, forte anche dell’esperienza negativa inglese; il secondo di contribuire all’agenda politica europea dei prossimi mesi.

La politica europea ha bisogno di obbiettivi ambiziosi anche per riconquistare la fiducia dell’opinione pubblica, pur nella consapevolezza di un quadro complesso:  una nuova Commissione, un Parlamento europeo fortemente influenzato da tendenze nazionaliste ed un contesto internazionale dominato da crisi di difficile soluzione come i conflitti in Ucraina e medio Oriente,  i continui flussi migratori ma anche il cambiamento climatico ed il soddisfacimento dei bisogni energetici.

L’opinione pubblica europea ha bisogno di ritrovare una spinta ideale come Delors seppe fare a metà degli anni ’80 lanciando il programma sul mercato unico. La libera circolazione in Europa non è solo un fattore economico ma serve a rilanciare e rafforzare il senso di appartenenza dei cittadini europei, come dice il titolo del rapporto molto più di un mercato, esso rappresenta una opportunità per i Leader europei, che speriamo non si lascino sfuggire.

Pubblicato sulla Gazzetta di Parma in data 25/10/2024

A che punto è l’integrazione economica europea?

Marco Ziliotti, Direttore Amministrativo della Fondazione Collegio europeo di Parma

Da oltre trent’anni – più di una generazione fa, quindi – in un’area prevalente del continente europeo, nel frattempo ampliatasi da dodici a ventisette Stati, le persone (Trattato di Shengen, 19 giugno 1990), i capitali (Direttiva CEE del 1 luglio 1990) e le merci (Mercato Unico Europeo, 1 gennaio 1993) possono circolare senza frontiere. Da oltre un ventennio, in venti di questi Paesi, i pagamenti si regolano con una moneta comune, l’Euro.

Gli effetti economici, sociali, politici e culturali del progetto di integrazione europeo (un esperimento unico nella storia, perché non imposto da uno stato egemone, ma dalla volontaria cooperazione fra tutti gli stati membri) sono stati, e sono, innegabilmente profondi, pervasivi ed in larga parte irreversibili. Ma la strada da percorrere perché l’Europa, anche solo dal punto di vista economico, diventi davvero una casa comune, in grado di valorizzarne appieno le straordinarie potenzialità, non è affatto terminata.

Quanto alla circolazione dei beni, nonostante il mercato e la moneta unici abbiano enormemente rafforzato le catene di fornitura su base continentale, a tutt’oggi il valore complessivo degli scambi di merci intraUE rappresenta poco più di un quarto del valore totale prodotto; tale interscambio vale invece il 60% fra gli Stati Uniti d’America.

In Europa, le barriere linguistiche, l’eterogeneità del valore legale dei titoli di studio e delle abilitazioni professionali, la carente integrazione fra i diversi sistemi pensionistici rappresentano ancora seri ostacoli alla mobilità del lavoro. Anche se un crescente numero di giovani, sceglie di – od è costretto a – cercare opportunità di lavoro all’estero, in media solo tre cittadini europei su cento vivono e lavorano stabilmente in uno Stato membro diverso da quello di nascita; in USA, uno su quattro.

Ancora incompiuta largamente l’integrazione relativa agli scambi di servizi: come è noto, i settori delle telecomunicazioni e dell’energia sono rimasti fuori, fin dall’origine, dal Mercato Unico. Anche a causa di ciò (come evidenziato con forza nel recente discorso di Mario Draghi a La Hulpe), il mancato sfruttamento delle economie di scala da parte delle utilities europee e la scarsa interconnessione fra le reti nazionali rendono le bollette delle imprese e delle famiglie europee molto più salate di quelle americane, e non solo.

Ma l’esempio più eclatante di potenziali vantaggi competitivi europei che restano inespressi a causa del persistente frazionamento delle regole e delle istituzioni è rappresentato dal mercato dei capitali. Da un lato, la storica capacità di risparmio privato, delle famiglie in particolare, che in Europa permane ad un livello fra il doppio ed il triplo rispetto alle famiglie americane (il tasso di risparmio sul reddito disponibile nella UE varia fra gli Stati membri dal 10 al 15 percento; negli Stati Uniti, le serie storiche recenti lo vedono attestato – salvo il picco di “risparmio forzoso” durante la pandemia – fra il 3 ed il 5 percento). Eppure, ogni anno escono dall’Europa 250 miliardi di euro di flussi finanziari.

La capitalizzazione delle borse valori europee rimane un sottomultiplo non solo di quelle americane (Nyse e Nasdaq), ma anche delle asiatiche (Tokyo, Shanghai, Hong Kong, Singapore). La ragione è evidente: quando una società italiana si quota a Milano, essa di fatto accede a risparmio prevalentemente domestico (capitalizzazione azionaria Borsa Valori di Piazza Affari: 800 miliardi di euro; capitalizzazione azionaria –“market cap”- del Nyse di Wall Street: 25 miliardi di dollari, di cui quasi un terzo di società non americane).

Ancora una volta, la parola chiave del problema è integrazione: è ben vero che un risparmiatore tedesco può comprare azioni in Italia e viceversa, ma questo rimane un “investimento estero”. Il mercato dei capitali italiano e quello tedesco sono controllati da diverse autorità di vigilanza (Consob e BaFin; l’authority europea ESMA detiene solo poteri di coordinamento); le norme che regolano il funzionamento delle imprese tedesche ed italiane (diritto societario; codici della crisi e dell’insolvenza) restano distinte; così come è differente la fiscalità sui redditi di impresa prodotti in Italia ovvero in Germania, o in altro Stato europeo, con una variabilità in Europa  – dal 9% dell’Ungheria ed il 12% dell’Irlanda, fino al 35% di Malta – che non ha paragone con quella fra i diversi Stati USA (con una aliquota minima del 21% ed una massima del 30%).

Nonostante gli straordinari progressi compiuti, date le sue regole democratiche di governance, l’Europa si trova ancora in mezzo al guado. Nel contesto competitivo e geopolitico attuale, ritornare sulle sponde di partenza sarebbe esiziale per i suoi singoli Paesi membri. Non resta che andare avanti, con massima decisione e con la consapevolezza che gli svantaggi “particulari” della integrazione sono di gran lunga superati dai vantaggi di interesse generale.    

I nuovi Deputati del PE al lavoro

Alfredo De Feo, Direttore scientifico della Fondazione Collegio europeo di Parma

I cittadini europei hanno eletto i 720 membri del Parlamento. Come possono i neoeletti influenzare le decisioni del Parlamento? 

Innanzitutto, scopriranno che il cosiddetto multilinguismo, dove ognuno può parlare la propria lingua, è una chimera. Infatti, teoricamente parlare la propria lingua è un diritto sicuramente garantito nelle sedute plenarie, ma non è sufficiente per garantire una buona integrazione nel lavoro parlamentare. L’amministrazione mette a disposizione dei deputati servizi di interpretariato e traduzione; inoltre, ogni deputato può assumere assistenti per aiutarlo a comunicare con i suoi colleghi. Tuttavia, se un deputato non riesce a esprimersi in una delle lingue “veicolari”, o meglio “nella lingua veicolare”, rischia di essere emarginato nel lavoro parlamentare. 

Il neo-deputato scoprirà poi che l’organizzazione del lavoro politico nel PE ruota attorno a due pilastri, due facce della stessa medaglia: i gruppi politici e le commissioni parlamentari. 

Le commissioni parlamentari sono divise per aree tematiche, ricalcando le commissioni dei parlamenti nazionali. I deputati saranno assegnati alle commissioni parlamentari in base alle loro competenze e preferenze. La composizione delle commissioni sarà dunque proporzionale alla composizione dell’assemblea plenaria. Avere specifiche competenze in un certo ambito aumenterà la possibilità di influenzare le decisioni. 

Nelle commissioni, oltre al Presidente e ai Vicepresidenti, un ruolo centrale è svolto dai portavoce dei gruppi, uno o due per gruppo, che hanno il compito di trovare le posizioni più unitarie all’interno del gruppo e poi difendere i risultati ottenuti in commissione all’interno del gruppo politico di appartenenza. I portavoce dei gruppi decidono inoltre a chi attribuire le relazioni o i pareri e scelgono i relatori e i relatori ombra. Queste posizioni sono chiave per lasciare un’impronta nel lavoro parlamentare. 

Per questo motivo, specifiche competenze nelle tematiche europee trattate dalle commissioni parlamentari sono essenziali per poter aspirare a ricoprire uno dei ruoli menzionati sopra e influenzare il processo decisionale. Infatti, le competenze contano; l’impatto di ogni deputato sarà proporzionale alla sua competenza e al suo modo di interagire con i suoi pari. 

Il lavoro nelle commissioni è certamente fondamentale, poiché la posizione del PE sulla legislazione da adottare viene preparata nelle commissioni, ma non è sufficiente, poiché i voti della plenaria sono determinati dalle posizioni dei gruppi politici. 

Per essere influente, il deputato deve saper trovare i suoi punti di riferimento all’interno del gruppo. Ovviamente ogni gruppo ha la propria organizzazione, che generalmente prevede un ruolo per le delegazioni nazionali e alcune aree tematiche, che generalmente coprono le competenze di più commissioni parlamentari. Anche in questo caso, i deputati che vogliono far valere delle specificità nazionali devono trovare il sostegno del gruppo politico, che dovrà poi negoziare compromessi con gli altri gruppi per ottenere la maggioranza richiesta in plenaria. 

In conclusione, ci auguriamo che i nuovi deputati si adattino rapidamente al metodo di lavoro del PE, per valorizzare le loro competenze. E per integrarsi bene nelle commissioni parlamentari e nei rispettivi gruppi politici, per partecipare attivamente alla costruzione democratica dell’Europa. 

Articolo pubblicato sulla Gazzetta di Parma il 13/6/2024 

European elections and the appointment of the President of the Commission

Alfredo De Feo, Scientific Director of the european college of Parma foundation

 

One of the central issues of the upcoming European elections is the appointment of the next President of the Commission. The candidate proposed by the European Council, taking into account the results of the elections, should be appointed by the European Parliament.

Since 2014, to reinforce the link between candidates and elections, the European parties have been appointing their candidates for the Presidency of the Commission (lead candidates). The candidates have then presented their vision of Europe and their responses to transnational challenges.

These debates are certainly interesting, as they force the candidates to present their ideas and their recipes, but they still have a great limitation: they do not attract the attention of public opinion in the various countries. Firstly, there is a language barrier, which is difficult to overcome, and secondly, the leaders of national parties have little motivation, especially when they are candidates, to put forward the candidate of the European party to which they are affiliated.

The European Parliament had put forward a proposal, supported by the most federalist circles, to create a single transnational constituency where each European party would present a single list with its own single candidate. In this way, the leading candidate of the party with the most votes would have a popular investiture, a kind of European premiership.

In reality, there is another limitation, the absence of a single electoral system, each country organizes its elections internally as it sees fit. In addition, proportional voting certainly makes the European Parliament representative of national public opinion, and this is a good thing, but not necessarily suitable for electing the best candidate for President of the Commission, whose main quality should be his/her capacity of mediator between the ‘Senate’ (national governments) and the lower house (the European Parliament).

The future President of the Commission must, however, have the ability to coalesce a parliamentary majority, probably making concessions to the right and the left, only in this way he/she will be able to have a majority in the European Parliament, a majority that could lose during the term of office, in case the motion of censure is activated, as it happened, in 1999 with the Santer Commission.

The best example of the Commission President’s ability to compromise came in 2019. Ursula von der Leyen was not among the Leader candidates expressed by the European parties, but none of them had the necessary parliamentary majority to be elected. The European Council nominated Ms von der Leyen, who was confirmed by only nine votes. After that, she negotiated her government programme with the parliamentary groups after the elections, obtaining a solid parliamentary majority.

To conclude, as it is often the case in Europe, the ideal solution is not achievable and remains a goal, but there is (almost) always a sub-optimal solution that advances the democratic process and European integration.

In previous years, the President of the Commission was formally appointed by the European Council. In practice, the appointment took place in a private room of the Council, or more often in a small room in some hotel between two or maximum three Heads of State, you can guess the names! The Treaty of Lisbon put an end to this practice and the European Parliament, with the majority that will emerge from the ballot box, has a decisive role. The citizens’ vote will have an important influence on the future of Europe.

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