L’amministrazione americana e la sovranità europea

Ci sono delle date nella storia che hanno un impatto sui cittadini e sull’opinione pubblica. Per esempio, come non ricordare il marzo 2020, quando quasi in contemporanea il mondo si è fermato a causa di una pandemia che ha ricordato a tutto il mondo la fragilità dell’essere umano specialmente in un modo globalizzato. Il 22 febbraio 2022, quando l’aggressione all’Ukraina da parte della Russia, rompeva un equilibrio di pace mettendo fine ad alcuni principi basilari del diritto internazionale come il rispetto della sovranità di uno Stato con il rischio concreto non solo di estensione del conflitto ma anche il rischio di violazioni delle sovranità nazionali, attraverso azioni militari o sofisticate ingerenze informatiche. O ancora il 7 ottobre 2023 quando i brutali attacchi di Hamas contro il popolo israeliano ha riaperto il mai sopito conflitto Israele-Palestinese, con il suo carico di massacri e tensioni ed il rischio di destabilizzare l’intera regione con conseguenze umane, economiche difficilmente calcolabili.

Il 20 gennaio 2025 potrebbe diventare una data che potrebbe essere ricordata nella storia dei paesi europei. L’ingresso alla Casa Bianca del neo rieletto Presidente Trump rischia infatti di incidere sulla vita di noi europei. Ovviamente non sappiamo se e come i proclami elettorali si tradurranno in azioni e politiche concrete, ma pur ammettendo che più indizi non fanno una prova, ci sono sufficienti motivi per essere preoccupati. Mi limito a segnalare tre minacce concrete alle quali i paesi europei dovranno farsi trovare pronti a dare delle risposte efficaci. Queste minacce sono:

L’introduzione di dazi sui prodotti europei, la de-regolazione globale dall’uso/abuso dell’intelligenza artificiale, dei social e sdoganamento delle cripto-valute ed il disimpegno militare americano dall’Europa.

Il tema dei dazi è quello che potrebbe tentare gli Stati europei ad andare a trattare bilateralmente con l’amministrazione americana. Una trattativa separata dei singoli Stati, permetterebbe di strappare alcune concessioni ma il prezzo da pagare sarebbe comunque elevato sia in termini di importazioni che in aumento dell’influenza americana sulle politiche nazionali nei vari paesi. Gli Stati europei dovrebbero difendere la propria sovranità cercando di preparare una risposta comune alle iniziative americane, cercando di evitare una guerra commerciale, dannosa per tutti, e cercando di instaurare un negoziato per raggiungere un accordo commerciale globale, che può essere raggiunto solo con la capacità degli Stati di trovare obiettivi condivisi da tutti gli Stati.

Nel settore delle tecnologie l’Europa ha un grosso ritardo produttivo ma è stata all’avanguardia nel regolamentare l’utilizzo dell’intelligenza artificiale (IA act) per permettere un uso responsabile a beneficio dei consumatori e per la difesa dei diritti d’autore. Parallelamente sono state adottate misure per regolamentare i servizi Digitali ed il Mercato Digitale, misure tendenti a limitare lo strapotere delle piattaforme digitali, come Amazon, Facebook, TikTok, Google ed altri. A questo si deve aggiungere le probabili pressioni esercitate dal potente consigliere di Trump, Elon Musk per ufficializzare e liberalizzare il mercato del cripto valute (di cui tra l’altro è proprietario di una di queste). Gli Stati Europei hanno tutto l’interesse a regolamentare anche i settori dei servizi e del mercato digitale e del cripto valute, per non farsi trovare impreparati e resistere alle probabili pressioni di deregulation che verosimilmente arriveranno dalla nuova amministrazione americana. Solo con una posizione forte gli Stati europei potranno proteggere i loro cittadini e mantenere la loro sovranità nazionale.

Infine il problema della sicurezza e della protezione del territorio europeo da attacchi esterni. La protezione finora garantita dallo scudo americano all’interno della NATO rischia di venir meno. Gli Stati Uniti, chiedono da tempo un maggiore impegno finanziario nella difesa all’interno della Nato, richieste che hanno trovato solo un orecchio distratto dalla maggior parte dei governi europei. La nuova amministrazione americana rischia di non fare sconti e costringere gli Stati europei ad aumentare le spese per la difesa.

Questo pone tre ordini di problemi, finanziario, produttivo e militare. Le finanze pubbliche di quasi tutti gli Stati non hanno, individualmente, le risorse per sostenere delle spese, che oltretutto solleverebbero forti critiche e resistenze da parte delle opinioni pubbliche. La soluzione potrebbe essere trovata, sul modello messo in campo nel post Covid, nell’ emissione di debito comune europeo per finanziare una maggior presenza europea alla propria difesa militare.

Il secondo problema è di ordine produttivo, se gli Stati europei non vogliono continuare a finanziare le industrie americane di armi, devono accordarsi per indirizzare la produzione verso un numero di modelli di armi ridotto, rinunciando alle pretese eccellenze nazionali. Cosa non facile ma indispensabile per investire nell’industria europea come d’altra parte raccomandato nel rapporto di Enrico Letta.

Per ultimo, l’aspetto militare il semplice coordinamento delle iniziative non è sufficiente, un salto di qualità è necessario, creando delle strutture decisionali in grado di prendere le misure per garantire la sicurezza dei nostri paesi e la sovranità dei nostri Stati.

Se l’Europa raccoglierà in modo positivo le sfide che verranno dagli Stati Uniti la data del 20 gennaio 2025 potrà essere ricordata come quella del salto qualitativo dell’Europa, altrimenti… meglio non pensarci!

Pubblicato dalla Gazzetta di Parma 11/01/2025

Verso l’euro digitale: cos’è e a cosa servirà?

Marco Ziliotti

 

Immaginate di poter disporre di un borsellino virtuale, incorporato nel vostro smartphone -o computer – , oppure in una card, che vi consenta di effettuare pagamenti accettati ovunque, senza commissioni né costi di altra natura (né per voi né per chi li riceve); che funzioni anche offline, nel più sperduto rifugio di montagna o quando internet va in tilt; che consenta, sempre senza costi, di trasferire in tempo reale  potere d’acquisto ad un familiare cui hanno rubato il portafoglio mentre era in viaggio all’estero; che, a differenza di bonifici, carte di credito e di debito, non solo, come detto, sia gratuito ma non necessiti nemmeno di appoggio su un conto corrente bancario – tuttavia che, se già lo possedete, può consentire (tramite un meccanismo di cosiddetto reverse waterfall) di attingere alle disponibilità giacenti – ; insomma, di un mezzo di pagamento semplice ed universale come il contante, ma che, a differenza di questo, grazie alla sua immaterialità, possa essere utilizzato senza trasferimento fisico e detenuto minimizzando i rischi di sottrazione fraudolenta.

In effetti, esistono già da anni sul mercato sistemi di wallet digitali (tra cui le più diffuse app PayPal, Google Pay, Apple Pay, Amazon Pay), ma anzitutto il loro funzionamento dipende dalla copertura internet ed inoltre si tratta di strumenti gestiti da soggetti privati, prevalentemente di oltre Atlantico, che, fra l’altro, si impossessano di tutte le informazioni relative alle transazioni eseguite.

L’euro digitale, invece, alla stessa stregua degli euro fisici, sarà un mezzo di pagamento gestito da una autorevole istituzione pubblica, la BCE, con tutte le garanzie del caso (anche quelle di avere un gestore “domestico”, elemento non banale in tempi di forti incertezze geopolitiche). Il progetto legislativo di istituzione di una CBDC (Central Bank Digital Currency) europea – sono peraltro in fase avanzata analoghi progetti in USA e Cina – è contenuto nel “Regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio relativo all’istituzione dell’euro digitale”, che prevede, dopo una fase preparatoria iniziata nel novembre 2023, che fra un anno il Consiglio direttivo della BCE passi alla fase operativa, stabilendone nel dettaglio modalità e tempistiche (rulebook).

La diffusone della moneta europea virtuale esordirà dunque probabilmente nel 2026, con l’obbligo di accettazione quale mezzo di pagamento non solo nei venti paesi dell’Eurozona, ma in tutti i ventisette dell’UE, con la fondata aspettativa che in breve tempo, alla stessa stregua dell’euro fisico, pure l’euro digitale venga accettato in tutti – o quasi – i paesi del mondo.

Preciso obiettivo delle autorità europee è che l’euro digitale rappresenti esclusivamente un mezzo di pagamento e non una riserva di valore (cioè, un asset su cui investire il proprio patrimonio). A tale scopo, si prevede che le somme detenute in euro digitale non fruttino alcun interesse e siano assoggettate a stringenti limiti quantitativi a livello individuale (le imprese potranno solo riceverlo in pagamento). Tali vincoli peraltro serviranno pure ad evitare effetti di disintermediazione e quindi di spiazzamento del sistema bancario: i depositi bancari continueranno ad essere la forma tipica di riserva di valore liquida.

Tale natura di mero mezzo di pagamento e non di potenziale asset speculativo mette in evidenza anche come l’euro digitale non sia in alcun modo comparabile alle criptovalute (Bitcoin, Ethereum, Tether, Solana, ecc): queste infatti, come noto, non dispongono di alcuna garanzia di controllo legale, bensì di sistemi fondati su tecnologie distribuite, tipo blockchain, e vengono tipicamente utilizzate come forme di investimento speculativo, altamente volatile.

L’euro digitale sarà invece assoggettato a controlli puntuali da parte della BCE che, come da suo preciso mandato istituzionale, ne dovrà dunque garantire la sicurezza – anzitutto rispetto al cybercrimine -, la stabilità del valore e, non meno importante, la tutela della privacy. Tema, quest’ultimo, di particolare delicatezza: l’uso frequente delle criptovalute per scopi illeciti suggerisce che anche le monete digitali, alla stessa stregua del contante, potranno essere utilizzate per finalità illegali. Starà all’intelligenza del regolatore trovare un giusto equilibrio fra lotta alla criminalità finanziaria e libertà economica.

La futura Commissione europea

Alfredo De Feo

Il 20 Novembre 2024, i gruppi politici del Parlamento europeo hanno concluso l’accordo politico che, con ragionevole certezza, permetterà l’entrata in funzione della nuova Commissione europea, il 1 dicembre come nella scorsa legislatura. Tale voto mette fine a molti mesi in cui l’attenzione delle Istituzioni europee è stata più rivolta verso l’interno che alle vicende geopolitiche. L’elezione di Trump, alla Presidenza degli Stati Uniti ha dato un’ accelerazione a processi che nel passato sono stati più complessi.

Per molti osservatori il comportamento dei leader dei gruppi parlamentari è apparso poco maturo, dettato da preoccupazioni difficilmente comprensibili di fronte alle urgenze ed alle sfide mondiali, sfide che si potranno affrontare solo con una grande unità.

I contrasti tra i gruppi politici, al di là, delle posizioni identitarie e nazionali, nascondevano un malessere di fondo: accettare lo spostamento della maggioranza dall’europeismo che abbiamo conosciuto negli decenni scorsi ad un europeismo, marcato da una presenza più invasiva degli Stati, probabilmente più in sintonia con il sentire di una parte dell’opinione pubblica, che si è tradotta nel risultato alle elezioni europee.

Ursula von der Leyen, ha colto da subito questo cambiamento, proponendo di coinvolgere il gruppo conservatore, o almeno una parte del gruppo, nelle cariche apicali della Commissione, essendo cosciente che nel prossimo quinquennio non potrà sempre contare sulla maggioranza di popolari, socialisti, liberali e verdi e che, probabilmente, avrà anche bisogno del supporto della destra più moderata, i conservatori europei. Inoltre, la nomina di Fitto dovrebbe garantirle una maggioranza più stabile anche in seno al Consiglio, dove il peso dell’Italia non è indifferente. Nell’architettura bicamerale europea, infatti, la Commissione, per qualsiasi atto legislativo, dovrà trovare non solo il sostegno della maggioranza parlamentare ma anche quella degli Stati Membri. L’atteggiamento della Presidente della Commissione denota lucidità e realismo politico.

Il Parlamento Europeo ha ampiamente dimostrato in questi anni di essere fondamentale nell’equilibrio istituzionale, potrà continuare ad essere centrale nella costruzione europea a condizione di mantenere la capacità di compromesso anche di fronte ad un Consiglio, la cui maggioranza degli Stati ha probabilmente una visione dell’Europa più nazionale.

D’altra parte se guardiamo agli ultimi venti anni, il processo decisionale europeo è divenuto progressivamente più intergovernativo, riducendo l’influenza della Commissione. La Commissione che dovrà accompagnare l’Europa verso il 2030 sarà sicuramente influenzata dai Governi, molti dei Commissari sono diretta espressione dei Governi nazionali ed è probabile che questi condizionino le scelte della Commissione più di quanto avvenuto in passato.

Gli ultimi anni hanno dimostrato però che il processo di integrazione europea può proseguire anche attraverso il metodo intergovernativo, con decisioni prese all’unanimità, come è stato per il piano di Ripresa e Resilienza finanziato con la garanzia dei bilanci nazionali. Anche se probabilmente, nell’immediato, questo tipo di finanziamento non si riprodurrà, gli Stati possono essere capaci di far progredire l’integrazione europea. La prova concreta si è avuta nel Consiglio Europeo informale del otto Novembre 2024 dove, i Capi di Stato e di Governo hanno invitato la Commissione, tra l’altro, a presentare una strategia orizzontale sull’approfondimento del mercato unico, verso un’unione dei risparmi e degli investimenti e realizzare con urgenza progressi per quanto riguarda l’unione dei mercati dei capitali.

Inoltre gli Stati chiedono all’Alto Rappresentante ed alla Commissione di presentare proposte per aumentare l’efficienza della capacità di difesa europea, in particolare rafforzando opportunamente la base industriale e tecnologica di difesa opzioni elaborate di finanziamento pubblico e privato.

Per concludere, la nuova Commissione dovrà rafforzare la credibilità europea con proposte che possano raccogliere il consenso di tutti gli Stati se è possibile, senza dimenticare che i Trattati prevedono che alcuni progetti siano condivisi solo da una gruppo di Stati, come per esempio l’Euro, o il trattato di Schengen, la cooperazione rafforzata, lasciando ovviamente le porte aperte agli altri di partecipare.  

Pubblicato sulla Gazzetta di Parma 23/11/2024

Il mercato unico e la lezione inglese

Alfredo De Feo, Direttore scientifico della Fondazione Collegio europeo di Parma

Da oltre quattro anni il Regno Unito ha lasciato formalmente l’Unione europea ed ormai tutti riconoscono che il bilancio del divorzio è fortemente negativo. Secondo i dati presentati dall’Ufficio di bilancio inglese, nessuna delle promesse dei promotori del referendum è stata mantenuta: risparmio dei contributi all’UE, meno tasse più commercio e meno migranti. Il Regno unito continua a pagare i suoi debiti con l’Europa ( 32 miliardi), ha aumentato le immigrazioni da paesi extra comunitari a seguito della partenza di molta manodopera europea mettendo tra l’altro in crisi servizi essenziali come ospedali, gli scambi commerciali con i paesi terzi non sono stati non all’altezza delle aspettative ed il ripristino delle frontiere ha portato all’assunzione di centomila dipendenti pubblici supplementari, con conseguente aggravio delle spese pubbliche.

Per esempio dal 2009 al 2016 l’Europa investiva nel Regno Unito, tra bilancio europeo e la Banca Europea di investimenti, oltre € 6 miliardi l’anno contro i € 2,4 messi a disposizione dal governo in questi anni (dati BEI e ufficio inglese di bilancio, ripresi dal Corriere della sera del 1 luglio). Tutto questo spiega perché il Regno unito, ed i suoi cittadini si sono impoveriti negli ultimi quattro anni.

La lezione inglese dovrebbe indurre la classe dirigente europea e l’opinione pubblica a riflettere suai vantaggi che hanno portato all’Europa le intuizioni di Delors, Mitterand e Kohl per la creazione Mercato unico per le persone, merci, i servizi  e capitali. Mercato unico che è stato imperfettamente realizzato.

Il Parlamento europeo ha pubblicato una mappatura del costo della non Europa, cioè i vantaggi che un completamento del mercato europeo porterebbe all’economia dei paesi membri. Lo studio conclude che un approfondimento dell’integrazione europea, potrebbe aumentare il PIL europeo di oltre € 2.800 miliardi entro il 2032.

La coscienza di questo potenziale inespresso ha indotto il Consiglio europeo di chiedere la preparazione di un rapporto sul futuro del mercato interno, rapporto la cui redazione è stata affidata ad Enrico Letta, ex Presidente del Consiglio italiano e Presidente dell’Istituto Delors e rettore di una delle più prestigiose Business school europee di Madrid.

Il rapporto, Molto più di un mercato, definisce il contesto nel quale i Leader europei dovranno confrontarsi, identificando tre fattori chiave che devono guidare l’approfondimento del mercato interno dell’UE: 1) l’impegno ad una transizione ecologica e digitale, economicamente e socialmente sostenibile; 2) la prospettiva, ineludibile, dell’allargamento dell’Europa; 3) l’esigenza di rafforzare il coordinamento delle politiche difesa dell’UE, politica che non può  essere delegata ai nostri partner della Nato.

Il Rapporto, presentato al Consiglio europeo dell’aprile 2024, passa in rassegna le aree dove il mercato interno deve essere completato o rinnovato per liberare nuove potenzialità del mercato unico, presentando una serie di proposte concrete volte in ultima analisi a migliorare la vita dei cittadini e degli operatori economici.

Tra queste proposte l’ampliamento del mercato unico all’innovazione, ricerca e istruzione, e la creazione di un diritto societario europeo, complementare ai diritti nazionali con l’obiettivo di aiutare le imprese, soprattutto le medie e piccole imprese, che operano o che vorrebbero sfruttare i mercati europei.

Alcune di queste proposte sono state riprese dalla prossima Presidente della Commissione, Ursula von der Leynen, nel suo discorso di investitura davanti al Parlamento Europeo ed incluse nel mandato assegnato a singoli commissari. C’è quindi da sperare che le proposte contenute nel rapporto possano far parte dell’agenda politica europea dei prossimi mesi.  

Per concludere il rapporto Letta raggiunge due obbiettivi: il primo riportare, sul tavolo dei Leader europei e di fronte all’opinione pubblica, l’importanza del mercato unico, forte anche dell’esperienza negativa inglese; il secondo di contribuire all’agenda politica europea dei prossimi mesi.

La politica europea ha bisogno di obbiettivi ambiziosi anche per riconquistare la fiducia dell’opinione pubblica, pur nella consapevolezza di un quadro complesso:  una nuova Commissione, un Parlamento europeo fortemente influenzato da tendenze nazionaliste ed un contesto internazionale dominato da crisi di difficile soluzione come i conflitti in Ucraina e medio Oriente,  i continui flussi migratori ma anche il cambiamento climatico ed il soddisfacimento dei bisogni energetici.

L’opinione pubblica europea ha bisogno di ritrovare una spinta ideale come Delors seppe fare a metà degli anni ’80 lanciando il programma sul mercato unico. La libera circolazione in Europa non è solo un fattore economico ma serve a rilanciare e rafforzare il senso di appartenenza dei cittadini europei, come dice il titolo del rapporto molto più di un mercato, esso rappresenta una opportunità per i Leader europei, che speriamo non si lascino sfuggire.

Pubblicato sulla Gazzetta di Parma in data 25/10/2024

A che punto è l’integrazione economica europea?

Marco Ziliotti, Direttore Amministrativo della Fondazione Collegio europeo di Parma

Da oltre trent’anni – più di una generazione fa, quindi – in un’area prevalente del continente europeo, nel frattempo ampliatasi da dodici a ventisette Stati, le persone (Trattato di Shengen, 19 giugno 1990), i capitali (Direttiva CEE del 1 luglio 1990) e le merci (Mercato Unico Europeo, 1 gennaio 1993) possono circolare senza frontiere. Da oltre un ventennio, in venti di questi Paesi, i pagamenti si regolano con una moneta comune, l’Euro.

Gli effetti economici, sociali, politici e culturali del progetto di integrazione europeo (un esperimento unico nella storia, perché non imposto da uno stato egemone, ma dalla volontaria cooperazione fra tutti gli stati membri) sono stati, e sono, innegabilmente profondi, pervasivi ed in larga parte irreversibili. Ma la strada da percorrere perché l’Europa, anche solo dal punto di vista economico, diventi davvero una casa comune, in grado di valorizzarne appieno le straordinarie potenzialità, non è affatto terminata.

Quanto alla circolazione dei beni, nonostante il mercato e la moneta unici abbiano enormemente rafforzato le catene di fornitura su base continentale, a tutt’oggi il valore complessivo degli scambi di merci intraUE rappresenta poco più di un quarto del valore totale prodotto; tale interscambio vale invece il 60% fra gli Stati Uniti d’America.

In Europa, le barriere linguistiche, l’eterogeneità del valore legale dei titoli di studio e delle abilitazioni professionali, la carente integrazione fra i diversi sistemi pensionistici rappresentano ancora seri ostacoli alla mobilità del lavoro. Anche se un crescente numero di giovani, sceglie di – od è costretto a – cercare opportunità di lavoro all’estero, in media solo tre cittadini europei su cento vivono e lavorano stabilmente in uno Stato membro diverso da quello di nascita; in USA, uno su quattro.

Ancora incompiuta largamente l’integrazione relativa agli scambi di servizi: come è noto, i settori delle telecomunicazioni e dell’energia sono rimasti fuori, fin dall’origine, dal Mercato Unico. Anche a causa di ciò (come evidenziato con forza nel recente discorso di Mario Draghi a La Hulpe), il mancato sfruttamento delle economie di scala da parte delle utilities europee e la scarsa interconnessione fra le reti nazionali rendono le bollette delle imprese e delle famiglie europee molto più salate di quelle americane, e non solo.

Ma l’esempio più eclatante di potenziali vantaggi competitivi europei che restano inespressi a causa del persistente frazionamento delle regole e delle istituzioni è rappresentato dal mercato dei capitali. Da un lato, la storica capacità di risparmio privato, delle famiglie in particolare, che in Europa permane ad un livello fra il doppio ed il triplo rispetto alle famiglie americane (il tasso di risparmio sul reddito disponibile nella UE varia fra gli Stati membri dal 10 al 15 percento; negli Stati Uniti, le serie storiche recenti lo vedono attestato – salvo il picco di “risparmio forzoso” durante la pandemia – fra il 3 ed il 5 percento). Eppure, ogni anno escono dall’Europa 250 miliardi di euro di flussi finanziari.

La capitalizzazione delle borse valori europee rimane un sottomultiplo non solo di quelle americane (Nyse e Nasdaq), ma anche delle asiatiche (Tokyo, Shanghai, Hong Kong, Singapore). La ragione è evidente: quando una società italiana si quota a Milano, essa di fatto accede a risparmio prevalentemente domestico (capitalizzazione azionaria Borsa Valori di Piazza Affari: 800 miliardi di euro; capitalizzazione azionaria –“market cap”- del Nyse di Wall Street: 25 miliardi di dollari, di cui quasi un terzo di società non americane).

Ancora una volta, la parola chiave del problema è integrazione: è ben vero che un risparmiatore tedesco può comprare azioni in Italia e viceversa, ma questo rimane un “investimento estero”. Il mercato dei capitali italiano e quello tedesco sono controllati da diverse autorità di vigilanza (Consob e BaFin; l’authority europea ESMA detiene solo poteri di coordinamento); le norme che regolano il funzionamento delle imprese tedesche ed italiane (diritto societario; codici della crisi e dell’insolvenza) restano distinte; così come è differente la fiscalità sui redditi di impresa prodotti in Italia ovvero in Germania, o in altro Stato europeo, con una variabilità in Europa  – dal 9% dell’Ungheria ed il 12% dell’Irlanda, fino al 35% di Malta – che non ha paragone con quella fra i diversi Stati USA (con una aliquota minima del 21% ed una massima del 30%).

Nonostante gli straordinari progressi compiuti, date le sue regole democratiche di governance, l’Europa si trova ancora in mezzo al guado. Nel contesto competitivo e geopolitico attuale, ritornare sulle sponde di partenza sarebbe esiziale per i suoi singoli Paesi membri. Non resta che andare avanti, con massima decisione e con la consapevolezza che gli svantaggi “particulari” della integrazione sono di gran lunga superati dai vantaggi di interesse generale.    

Che maggioranza per nominare il Presidente del Consiglio europeo?

Josè Luis Pacheco 

Potrebbe non essere molto importante, ma è indicativo della scarsa conoscenza delle questioni europee da parte del mondo dei media (e di conseguenza dell’opinione pubblica). 

 Molti articoli, tra cui anche alcuni prestigiosi giornali , indicano che l’elezione del Presidente del Consiglio Europeo avviene con decisioni a maggioranza qualificata. Lo stesso vale per la nomina del candidato alla presidenza della Commissione e per l’elezione dell’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, giusto, ma poi aggiungono che ciò significa il voto favorevole del 55% degli Stati membri, corrispondenti almeno al 65% della popolazione dell’Unione. Ciò equivale a 15 Stati membri (senza prendere in considerazione il fattore popolazione). 

È sbagliato! 

Questo tipo di maggioranza qualificata è richiesta quando il Consiglio o il Consiglio europeo decide su proposta della Commissione. Ma in questo caso non c’è alcuna proposta da parte della Commissione. Sono gli stessi Stati membri a proporre i nomi alle candidature. In questi casi, quando la decisione non è presa sulla base di una proposta della Commissione, la maggioranza qualificata richiede il voto favorevole del 72% degli Stati membri, che rappresentino almeno il 65% della popolazione dell’Unione. Ciò significa 20 Stati membri (una bella differenza rispetto a 15). Risulta dall’art. 15, comma 6, TUE e dall’art. 235, comma 1, TFUE, che prevede l’applicazione dell’art. 16, paragrafo 4, TUE e 238, paragrafo 2, TFUE alla procedura decisionale del Consiglio europeo. 

È già abbastanza grave quando tali errori possono essere letti su giornali prestigiosi. Ma è molto peggio quando l’errore si trova sul sito stesso della Commissione europea, che funge da guida per gran parte della stampa e per i cittadini. 

L’agenda politica (tutta da scrivere) della Presidente Von dear Leyen verso il 2030

Alfredo De Feo, Direttore scientifico della Fondazione Collegio europeo di Parma

E’ probabilmente la prima volta, dal 1979, che la stampa ed i media europei hanno dedicato molto spazio all’Europa. Sopite le polemiche che hanno seguito l’approvazione del candidato proposto dal Consiglio europeo, Ursula von der Leyen da parte del nuovo Parlamento europeo, con oltre il 55% dei consensi, é iniziata una fase delicata che dovrà portare alla definitiva approvazione della Commissione che  accompagnerà il processo europeo verso il 2030. 

Il mese di agosto, in particolare, sarà intenso e caldo per la Presidente della Commissione. La Presidente Von Der Leyen dovrà trovare un equilibrio tra il programma che ha presentato al Parlamento europeo, le competenze dei Commissari, la maggioranza parlamentare e il rispetto degli equilibri in seno al Consiglio e, infine, ma non ultimo la parità di genere. Solo il dosaggio di questi elementi potrà garantire una ricetta che eviti ‘indigestioni’ nel momento cruciale dell’ultimo passaggio, davanti al Parlamento europeo, prima della definitiva entrata in funzione della Commissione. 

La Presidente del Consiglio dovrà misurarsi con le ambizioni e le richieste dei ventisette Governi, (di cui 13 sono di centrodestra, 10 di centro sinistra, 2 di destra, con Francia e Belgio con governi in fase di formazione.  

Il Parlamento europeo prima di votare l’approvazione del Collegio, procederà all’audizione fatta dalle rispettive commissioni parlamentari dei singoli deputati. Nel passato, Il Parlamento ha respinto diversi candidati commissari. Il primo caso fu nel 2004 quando il Parlamento respinse la candidatura di Rocco Buttiglione, costringendo il Governo italiano a cambiare candidato ed a nominare Franco Frattini. Questa procedura, pur non prevista dai Trattati, è stata fin ora sempre rispettata dai Governi, il cui candidato non ha superato l’esame parlamentare, per non correre il rischio di vedere respinta l’intera Commissione. 

I Governi, per evitare questo rischio, dovranno fare prova di flessibilità proponendo dei candidati competenti in relazione al portafoglio che la Presidente Von der Leyen attribuirà loro. Un passaggio questo da non sottovalutare, 

I Commissari forgeranno poi, insieme alla Presidente, la politica della Commissione e tra di loro ci saranno anche Commissari vicini a partiti che hanno votato contro la Presidente Von Der Leyen.  

Il vero programma di lavoro della Commissione scaturirà, quindi, dall’equilibrio che si formerà all’interno della Commissione. In realtà, l’agenda politica della Presidente von der Leyen, con cui la Commissione accompagnerà l’Europa verso il 2030 è tutto da scrivere. 

Il discorso programmatico della candidata presidente al Parlamento europeo ha avuto sicuramente un valore politico, soprattutto riguardo il suo impegno personale, ma non costituisce di per sé un programma di lavoro. Una volta insediata, la Commissione dovrà preparare le proposte e non potrà non tener conto degli equilibri in seno alla Commissione, della consistente minoranza parlamentare e dei nove governi, cinque facenti capo al gruppo dei Conservatori ECR (Italia, Finlandia, Cechia, Svezia e Belgio) mentre quatto sono collegati al gruppo dei Patrioti. Questi partiti variano tra euro opportunisti, euro critici euro scettici o anti europei. 

Al di là del programma presentato al Parlamento europeo, il compito della probabile Presidente della Commissione fino al 2029 sarà molto più complesso. Le proposte che usciranno dal Collegio dei Commissari dovranno affrontare una procedura legislativa che si può concludere solo con un compromesso tra i due rami del potere legislativo. La Commissione dovrà favorire il miglior compromesso ma non potrà non tener conto delle tendenze emerse dal voto europeo e delle posizioni di un terzo degli Stati, pur sapendo che l’unanimità non è sempre necessaria in seno al Consiglio. 

La vera sfida per la Presidente Von Der Leyen sarà quella di impostare una politica europea più sostenibile per i cittadini e le imprese europee, solo questa agenda politica potrà ridurre quello spazio di malcontento che ha in buona parte alimentato i partiti nazionalisti. 

Pubblicato Gazzetta di Parma 5-8-2024 

I nuovi Deputati del PE al lavoro

Alfredo De Feo, Direttore scientifico della Fondazione Collegio europeo di Parma

I cittadini europei hanno eletto i 720 membri del Parlamento. Come possono i neoeletti influenzare le decisioni del Parlamento? 

Innanzitutto, scopriranno che il cosiddetto multilinguismo, dove ognuno può parlare la propria lingua, è una chimera. Infatti, teoricamente parlare la propria lingua è un diritto sicuramente garantito nelle sedute plenarie, ma non è sufficiente per garantire una buona integrazione nel lavoro parlamentare. L’amministrazione mette a disposizione dei deputati servizi di interpretariato e traduzione; inoltre, ogni deputato può assumere assistenti per aiutarlo a comunicare con i suoi colleghi. Tuttavia, se un deputato non riesce a esprimersi in una delle lingue “veicolari”, o meglio “nella lingua veicolare”, rischia di essere emarginato nel lavoro parlamentare. 

Il neo-deputato scoprirà poi che l’organizzazione del lavoro politico nel PE ruota attorno a due pilastri, due facce della stessa medaglia: i gruppi politici e le commissioni parlamentari. 

Le commissioni parlamentari sono divise per aree tematiche, ricalcando le commissioni dei parlamenti nazionali. I deputati saranno assegnati alle commissioni parlamentari in base alle loro competenze e preferenze. La composizione delle commissioni sarà dunque proporzionale alla composizione dell’assemblea plenaria. Avere specifiche competenze in un certo ambito aumenterà la possibilità di influenzare le decisioni. 

Nelle commissioni, oltre al Presidente e ai Vicepresidenti, un ruolo centrale è svolto dai portavoce dei gruppi, uno o due per gruppo, che hanno il compito di trovare le posizioni più unitarie all’interno del gruppo e poi difendere i risultati ottenuti in commissione all’interno del gruppo politico di appartenenza. I portavoce dei gruppi decidono inoltre a chi attribuire le relazioni o i pareri e scelgono i relatori e i relatori ombra. Queste posizioni sono chiave per lasciare un’impronta nel lavoro parlamentare. 

Per questo motivo, specifiche competenze nelle tematiche europee trattate dalle commissioni parlamentari sono essenziali per poter aspirare a ricoprire uno dei ruoli menzionati sopra e influenzare il processo decisionale. Infatti, le competenze contano; l’impatto di ogni deputato sarà proporzionale alla sua competenza e al suo modo di interagire con i suoi pari. 

Il lavoro nelle commissioni è certamente fondamentale, poiché la posizione del PE sulla legislazione da adottare viene preparata nelle commissioni, ma non è sufficiente, poiché i voti della plenaria sono determinati dalle posizioni dei gruppi politici. 

Per essere influente, il deputato deve saper trovare i suoi punti di riferimento all’interno del gruppo. Ovviamente ogni gruppo ha la propria organizzazione, che generalmente prevede un ruolo per le delegazioni nazionali e alcune aree tematiche, che generalmente coprono le competenze di più commissioni parlamentari. Anche in questo caso, i deputati che vogliono far valere delle specificità nazionali devono trovare il sostegno del gruppo politico, che dovrà poi negoziare compromessi con gli altri gruppi per ottenere la maggioranza richiesta in plenaria. 

In conclusione, ci auguriamo che i nuovi deputati si adattino rapidamente al metodo di lavoro del PE, per valorizzare le loro competenze. E per integrarsi bene nelle commissioni parlamentari e nei rispettivi gruppi politici, per partecipare attivamente alla costruzione democratica dell’Europa. 

Articolo pubblicato sulla Gazzetta di Parma il 13/6/2024 

European elections and the appointment of the President of the Commission

Alfredo De Feo, Scientific Director of the european college of Parma foundation

 

One of the central issues of the upcoming European elections is the appointment of the next President of the Commission. The candidate proposed by the European Council, taking into account the results of the elections, should be appointed by the European Parliament.

Since 2014, to reinforce the link between candidates and elections, the European parties have been appointing their candidates for the Presidency of the Commission (lead candidates). The candidates have then presented their vision of Europe and their responses to transnational challenges.

These debates are certainly interesting, as they force the candidates to present their ideas and their recipes, but they still have a great limitation: they do not attract the attention of public opinion in the various countries. Firstly, there is a language barrier, which is difficult to overcome, and secondly, the leaders of national parties have little motivation, especially when they are candidates, to put forward the candidate of the European party to which they are affiliated.

The European Parliament had put forward a proposal, supported by the most federalist circles, to create a single transnational constituency where each European party would present a single list with its own single candidate. In this way, the leading candidate of the party with the most votes would have a popular investiture, a kind of European premiership.

In reality, there is another limitation, the absence of a single electoral system, each country organizes its elections internally as it sees fit. In addition, proportional voting certainly makes the European Parliament representative of national public opinion, and this is a good thing, but not necessarily suitable for electing the best candidate for President of the Commission, whose main quality should be his/her capacity of mediator between the ‘Senate’ (national governments) and the lower house (the European Parliament).

The future President of the Commission must, however, have the ability to coalesce a parliamentary majority, probably making concessions to the right and the left, only in this way he/she will be able to have a majority in the European Parliament, a majority that could lose during the term of office, in case the motion of censure is activated, as it happened, in 1999 with the Santer Commission.

The best example of the Commission President’s ability to compromise came in 2019. Ursula von der Leyen was not among the Leader candidates expressed by the European parties, but none of them had the necessary parliamentary majority to be elected. The European Council nominated Ms von der Leyen, who was confirmed by only nine votes. After that, she negotiated her government programme with the parliamentary groups after the elections, obtaining a solid parliamentary majority.

To conclude, as it is often the case in Europe, the ideal solution is not achievable and remains a goal, but there is (almost) always a sub-optimal solution that advances the democratic process and European integration.

In previous years, the President of the Commission was formally appointed by the European Council. In practice, the appointment took place in a private room of the Council, or more often in a small room in some hotel between two or maximum three Heads of State, you can guess the names! The Treaty of Lisbon put an end to this practice and the European Parliament, with the majority that will emerge from the ballot box, has a decisive role. The citizens’ vote will have an important influence on the future of Europe.

EU Enlargement and Neighbourhood Policy with a focus on the Western Balkan countries

Dejan Kralov, ex alunno DASE

The topic of the European Union enlargement is one of the most relevant and significant issues facing the Union, particularly in times of war and destabilization in Europe mainly caused by the Russian aggression against Ukraine. The EU’s enlargement and neighborhood policy play a crucial role in shaping the future stability, prosperity, security and progress of both the European Union and the entire European continent. By expanding the zone of peace and development, the European Union extends its presence and influence, striving to become the most influential global power. However, the thesis elaborates how the requirement for unanimous decisions within the EU poses one of the main obstacles for achieving the above-mentioned future challenges. Additionally, the thesis advocates for introduction of clear reasons due to which a certain EU candidate country can be vetoed in order to establish a more democratic, effective and efficient membership process without blackmails, within a strengthened and united EU accessible equally to all European countries. It is a fact that we have witnessed quite unprincipled blockades without competent, democratic and legitimate reasons for veto by compromising the Copenhagen criteria and EU treaties, while interfering in the candidate countries’ sovereignty, which is uncharacteristic for the European Union. Moreover, the thesis focuses on the Copenhagen criteria, essential benchmarks that must be met by candidate countries to progress in the accession process. They indicate if the candidate countries are politically, economically, and legally prepared in the accession process, while emphasizing that bilateral issues must not be a reason for veto according to EU treaties. However, this is not the case in reality, where such bilateral issues often take precedence. Such inappropriate vetoes, as the current Bulgarian veto of Macedonia and Greek veto of Albania, as well as the previous Greek veto of Macedonia marked by blackmails and a misuse of stronger and more assertive position as EU member states, while compromising the principles of the European Union and its treaties.

The thesis focuses on the history of every Western Balkan candidate country’s path to EU accession. It highlights all main disputes, agreements and statements, while providing potential solutions for resolving the actual disputes. Supported by facts and arguments, Macedonia’s path to EU accession represents the most difficult, undemocratic and unique accession process that must not happen to any EU candidate country. At the same time, the EU accession process of Macedonia is an example of how the accession to the European Union should not look like. With such types of vetoes like the Greek and Bulgarian ones towards Macedonia, the European Union is violating its values without which it cannot survive as a community. The Greek veto, which pertained to the non-recognition of the Macedonian national and constitutional flag and also the name “Republic of Macedonia”, contradicted the conclusion provided by the European Union Arbitration Commission, that the name “Macedonia” does not represent any territorial threat for Greece. At the same time, Greece also violated international law by not respecting the “Interim Agreement” signed between these two countries. In addition, Greece does not respect the judgment of the International Court of Justice related to this case, where 15 votes were in favour of Macedonia and only one vote from the Greek judge in favour of Greece. Furthermore, Greece acted contrary to the stances of all European institutions, all the positive reports provided by the European Commission and against the resolution from the European Parliament in 2010, which emphasized that the Copenhagen criteria were fully satisfied by Macedonia for the start of accession negotiations. Despite the EU’s promise to Macedonia that this would be the final obstacle before EU membership, the current Bulgarian veto has proven otherwise. This veto was imposed in pretty much the same way by compromising the Copenhagen criteria, EU treaties, regulations and obviously blackmailing Macedonia once again only for self-interests and benefits because of the better assertive position as an EU member state, not thinking about the common interest, stability and future prosperity of the European Union. Additionally, such actions violate the fundamental European values and this interference in the candidate country’s sovereignty, territorial integrity and citizens’ nationality is contrary to international law and EU Treaties.

If the EU intends to complete the ongoing process of joining the European Convention on Human Rights and recognise the jurisdiction of Strasbourg, then should decide whether Macedonia is the guilty party and should really be vetoed due to unsubstantiated and alleged claims about disrespect for human rights, although there are no such judgments and it is an example of a multi-ethnic state where all the rights of minorities are fully protected, or Bulgaria may be the true party at fault, using the veto as a cover-up for its own actions or responsibilities. The fact that Bulgaria has 14 judgments from the Court of Human Rights in Strasbourg related to the non-recognition and violation of the human rights of the Macedonian minority in Bulgaria, that have not yet been implemented is the strongest proof of this case. However, we need to delve deeper into this process to find out the real reasons behind this veto. According to the number of judgements from the Court of Human Rights for these two countries, one thing becomes evident, the Bulgarian demand for the inclusion of the Bulgarian minority (less than 1% of the total population in Macedonia) in the Macedonian constitution serves as a mask behind which the real underlying demands lie. Behind this condition lie numerous others, primarily concerning historical issues, as articulated by several prominent Bulgarian politicians, including the current President Rumen Radev and Bulgarian MEP Angel Dzambaski, who have even expressed territorial pretentions towards Macedonia. The political pressure should be directed towards Sofia instead of unilaterally towards Skopje, mainly due to the facts that Bulgaria has faced criticism from the European Court of Human Rights, the Council of Europe and the United Nations Committee on the Elimination of Racial Discrimination for its failure to implement the judgements concerning the human rights of the Macedonian minority in Bulgaria. The need for strict involvement in this process by the EU is necessary, otherwise the union itself will break its own values because after all Bulgaria is part of the EU. Nevertheless, while Macedonia has been better prepared for the start of accession negotiations in specific previous years, these were the primary reasons driving the accession process and bilateral disputes together with many blackmails took precedence.

I have presented four potential solutions for resolving the current dispute between Bulgaria and Macedonia. The first solution implies signing of a resolution that will contain the inclusion of the Bulgarian minority in the Macedonian constitution, as well as the implementation of the judgments from the Court of Human Rights which will follow immediately after the ratification of the Accession Treaty, following the example of the resolution between Croatia and Slovenia related to their territorial dispute. The second potential solution is a provision of written guarantees by the EU that will not follow additional future demands from Bulgaria. The third solution, includes extreme measures such as suspending European grants to Bulgaria, which are vital for its functioning. My last but not least solution aims to prevent the exploitation of the EU by Bulgaria in future and to protect the security, dignity and democratic principles of the EU, which means acting with four-fifths of EU members, to suspend and relativise the decision-making rights of Bulgaria as seen in procedures initiated for Hungary and Poland, deciding that by violating the fundamental values, Bulgaria creates risks in EU foreign policy, because after all the right of veto is not an absolute right.

In order the process of EU enlargement be successful, the political doublespeak must stop, either in the EU and Western Balkan countries. The EU must stop its doublespeak for so many years that is open for enlargement and war had to happen to understand how important the enlargement is for the EU’s future. The EU enlargement and neighborhood policy must become a priority again because only with a completed and unified EU could become the most powerful global factor. On the other side, Western Balkan countries must stop with doublespeak about their readiness for the needed reforms because we are witnessing numerous low evaluations in the European Commission reports, and their challenges remain the same for so many years such as the rule of law, fight against crime and corruption, as well as independent judiciary. If the EU wants to achieve future security, stability and prosperity as well as complete removal of Russian influence and presence in these areas that significantly contribute to destabilisation, a sincere and concrete offer specifying a precise date for accession to the EU need to be offered alongside clearly defined democratic conditions for enlargement. Additionally, gradually inclusion of the Western Balkan countries into the European single market and Schengen zone before their full membership, giving them an equal opportunity to progress as all the EU member states.

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